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I corti - LA MOGLIE DEL FABBRO

 

 

 

LA MOGLIE DEL FABBRO

 

 

In esta magione la aqua no dee mai mancare, sia supra che sutta, sia per la ripulitura dei corpi anneriti di sera quando la fatica della fùcina termina, sia per lo freddamento de lo ferro che lo martello compone per la forma di spada o picca o lancia ot oltr’armatura.

Lo mio sposo è enfacto magnifico manifactore de esta manifactura de ferro et foco che sé torre di casa anzi che lo velo de cielo si schiari et ne torna ben poscia l’avvento notturno. Ver’è che non lunge ma sotto la casa tiene la buttiga et poco a longo lo forno indove lo lavorante co’ lo novo mantice inviva lo foco et crepita et soffia toto lo die finché la dura materia non fia piegata al volere de lo fabbro.

Pro tale cagione en esti dintorni sempre se ode de battere de martello, de soffiar lo foco, de cantar li lavoranti di che quest’ultimo è maggior romore. Tanto che ier non fu dimolto venne in buttiga uno molto ben vestito omo trattovi non da dovere far l’acquisto di lama o scudo ma dallo cantare che lo marito meo facea nello battere sulla incude un non so che ferro de caldo ammorvidito. Entratovi che fue, e lo meo marito smesso di cantare et martellare, per lo che lo ferro andava raffescando anche senza l’uso della aqua che in una tinozza gli era, meo marito smesso dal cantare e battere, lo pellegrino senza nulla annunciare dello suo volere si die’ di tratto a rumpere la buttiga et jettare in terra ogni tavolo et ogni attrezzo et ogni manufatto che vi trovaa. Per il che lo fabro, lassato ferro e martello e tinozza, si fece appresso a lui bociando che la smettesse e chiedendo che volesse. Per il che avea lassato lo battimento et lo cantare. Giuntoli in presso, che alzò le braccia grosse e maculare di fuliggine della qual cosa sempre abondante si ritrova e nella buttiga del fabbro et nella fùcina onde arde lo caldare e soffia lo mantice et anco nella magione onde la poera mugliera non ha agio da’ tòrla, alzate le grosse braccia fece per il trattenere il passeggere dallo ròmpare et abattere ogni cosa ch’elli trovasse. Allora il pellegrino fermossi e mirato lo marito meo nelli occhi fermamente et cum sonora voce, tanto ch’i’ la potei sentire dalla magione al pian de supra, lo pellegrin ne disse: “O fabbricere da’ villan fottuto, nello to martellar di fabro tu favelli a gran voce et grandissima dismelodia le parole de le mie canzoni, tanto che tu ne strupi e tu ne struggi et abbattile nella terra quasi che ‘nvece di parole fosser mura di castella presso cui grand’ordegni de distruzion jettan proietti. Ordegno è la toa favella sì che mal tollero dal to cantare possano intendersi mie parole. Per lo cui, tu struggi la lengua mia che lo meo strumento de lo meo mestiero è! Da cui io struggo la butiga toa et ogne stromento de lo tuo mestier di fabbro ch’io possa trovare. E questo prencipio de justitia è nomano in tartaria torre l’occhio per l’occhio et la mano per la mano come ne la scrittura anco si mira”.

Et esto detto, con ultima gran chiassata di tavolo che s’andaa a gambe nell’aria, lo pellegrino se ne fuggì per donde gli era entrato. E non vi fu piue cantare per quello jorno.

Gionto la sera che lo meo marito salse da la butiga in la magione e doppo che si fue lavato con due de li cinque secchie de aqua ch’io, da brava massaia, nella jornata avea portato, senza ch’i’ ‘l richiesi vergognando, elli stesso me contò: “Maria Maria, oggi passò de quie e jettomi pe’ la terra tutta la butiga Misser Dante fiorentin dell’Alighieri molto adontanto perch’io cantaa una soa canzonetta.”

Al quale io risposi: “Marito meo, nun ti crucciar che v’è di tale jente in lo mondo che canta e non li piace ch’altri canti seco o di sue cose. Per che, s’anche la parola fu la stessa, vedono che mala cangia se la bocia che la canta fia d’altrui”.