Didattica in corpore vili - Rewind
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- Categoria: Riflessioni e articoli
- Pubblicato Lunedì, 15 Febbraio 2021 00:41
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Già ai bambini molto piccoli si chiede: “cosa vuoi fare da grande?” Lo si chiede per gioco ma per i bambini il gioco è appunto l’unica cosa davvero seria. Dalle risposte che i bambini danno con tutta la serietà loro possibile si può misurare il divario generazionale. La mia generazione rispondeva con delle assurdità come “da grande voglio fare l’astronauta”. La generazione più recente risponde invece con cose anche più assurde come “non voglio fare niente” o “voglio fare Flavio Briatore”.
Anche considerando che il contenuto sostanziale di quelle assurdità infantili facete ma molto serie sia il medesimo, cioè appunto l’assurdità, cambia generazionalmente la rappresentazione plastica di quelle assurdità. Si è invece erroneamente pensato, già nell’ultimo mezzo secolo, che un ragazzo di tredici anni del ventesimo o ventunesimo secolo sia in grado di decidere cosa fare da grande. In realtà, il contenuto di una risposta alla domanda “cosa vuoi da grande” da parte di un tredicenne è solo di poco meno assurdo di quello di un bambino di cinque o sette anni. Né poteva essere diverso nel diciannovesimo o diciottesimo secolo. L’ovvia conseguenza è che nel diciassettesimo secolo come nel ventunesimo sono in realtà i genitori che sostanzialmente scelgono e decidono per il futuro dei loro figli. Né può essere diverso da così, nemmeno sotto il profilo giuridico. I genitori possono sì tenere in conto i desiderata dei loro figli ma dei genitori è la responsabilità di quella scelta a quell’età. Compito ingrato, forse, ma logico e giuridicamente disciplinato. Non è possibile, d’altronde, abiurare alla genitorialità: di quella scelta i genitori hanno responsabilità e se la devono assumere. L’idea che un ragazzo di tredici anni possa decidere davvero, davvero scegliere del proprio destino futuro non può che essere una scusa o una pia illusione. È solo un poco più avanti, con gli sviluppi adolescenziali, che il ragazzo può accettare o rifiutare le scelte fatte per lui, in sua vece: accettarle o rifiutarle sia nel merito che nel metodo. È questa quella che si chiama “crisi adolescenziale”.
Una proposta, dunque, sul futuro futuribile, cioè realizzabile, dei ragazzi la si presenta non ai ragazzi stessi ma ai loro genitori. Questo scarto rispetto al destinatario della proposta formativa, la scuola lo sconta sul piano della demotivazione, depressione, scontento, fallimento dei propri studenti.
La proposta dell’istituto professionale si indirizza verso il mondo del lavoro a media specializzazione. Certamente, a termini di legge e di Costituzione della Repubblica Italiana, anche la proposta formativa dell’istituto professionale deve comunque essere tale da consentire l’accesso universitario e rendere così possibile la mobilità sociale. Ma l’istituto professionale deve anche formare per l’accesso immediato al mondo del lavoro al termine del percorso di studi superiori che finisce con l’esame di Stato. Rispetto ad una formazione liceale l’istituto professionale ha una proposta ed un compito in più. La formazione liceale è il traghettamento da un percorso didattico – quello delle scuole medie – ad un altro percorso didattico – quello dell’università. Come sanno tantissimi studenti ex-liceali, il loro diploma di maturità ha ben poca o nulla spendibilità sul piano lavorativo. Al contempo, i loro coetanei degli istituti professionali hanno l’esito esattamente opposto, per quanto ne abbiano meno coscienza, specialmente in anni di crisi economiche e pandemie varie. Le statistiche sulla disoccupazione giovanile ci dicono che i disoccupati provenienti da istituti professionali sono di gran lunga meno numerosi di quelli proveniente da licei o altri istituti di medio-alta formazione. Questo stato di cose ha fatto parlare di “disoccupazione intellettuale” ed è questo il motivo della cosiddetta “fuga dei cervelli”.
La proposta formativa degli istituti professionali lascia aperta e, in qualche modo, procrastina a tempi più maturi la scelta individuale di cosa vuoi fare da grande: si può andare a lavorare o continuare a studiare o entrambe contemporaneamente. Certamente, la scelta lavorativa non coinvolge – e non può farlo – un profilo di alta specializzazione. Uno studente che esce diplomato da un istituto professionale non può aspirare ad una professione da ingegnere: al massimo può essere un tecnico. Quello che fornisce l’istituto professionale è un profilo di media specializzazione e tuttavia si tratta pur sempre di un profilo tecnico specialistico. Il fatto non secondario è che può continuare a desiderare di fare l’astronauta e può provare concretamente a diventare astronauta davvero. Viceversa, uno studente proveniente da un liceo può solo aspirare, come impiego immediato, a bassi profili professionali dequalificati seppure non dequalificanti – perché ogni mestiere onesto è meritevole e dignitoso. Certamente, anche il liceale può continuare a desiderare di fare l’astronauta ed impegnarsi per realizzare il proprio desiderio, probabilmente anche con maggiori chance di successo rispetto al suo coetaneo dell’istituto professionale. La scelta a cui si trova di fronte un ex studente di liceo è una scelta manichea: o astronauta o cameriere. Viceversa, il bivio a cui si trova di fronte l’ex studente dell’istituto professionale è molto più moderato: egli può scegliere liberamente fra lavorare con un impiego a bassa qualificazione o continuare a studiare anche al fine di migliorare la propria qualificazione. Ma soprattutto può scegliere cosa fare da grande con le libertà e l’autonomia di una persona ormai adulta.
C’è un carattere di irreversibilità nella scelta fatta a tredici anni su cosa si vuole fare da grande. Irreversibile e tuttavia procrastinabile, nel caso si scelga un istituto professionale. Irreversibile perché nella vita non esiste il “rewind”, per quanto i giovani non ne abbiano percezione.