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Didattica in corpore vili - La cura

La cura

 

Noi, nella nostra lingua, chiamiamo “voler bene” uno stato affettivo ed emozionale. Il voler bene ad una persona si manifesta come un prendersi cura di quella persona. È in questo modo che i genitori si occupano dei loro figli e gli vogliono bene. Ma, così come la didattica e la pedagogia non sono scienze esatte, neanche fare i genitori lo è. Non si è mai genitori: si impara sempre ad esserlo. In questo stesso senso non si è mai insegnanti: si impara sempre ad esserlo. Ed è per questo che si può insegnare solo quel tanto che si impara nello stesso momento in cui si sta insegnando. Anche i genitori imparano dai loro figli via via che crescono: nessun genitore è lo stesso uomo o la stessa donna di prima di avere un figlio. Questo rapporto di apprendimento reciproco è un rapporto vitale, arricchente e soddisfacente che fa del mestiere di insegnante il più bel mestiere del mondo.

Noi indichiamo anche con “curare” il guarire da uno stato di malattia. Ora, è evidente che non si può guarire, altrimenti non esisterebbe la morte. Il curare è perciò solo, a malapena e non sempre, un esorcizzare la paura, il dolore, la morte che inevitabilmente esistono. Curare è dunque, ancora una volta, aver cura di qualcosa o di qualcuno; alla fin fine, voler bene a qualcosa o a qualcuno.

Questo è il senso e il modo nel quale l’istituto professionale ha cura dei propri studenti. Non solo e non principalmente perché l’adolescenza è sempre e ovunque in ogni tempo un’età piena di paura e di dolore che solo gli affetti che si manifestano con la cura possono esorcizzare: quegli affetti che infatti i giovani di quell’età vanno cercando continuamente ed affannosamente utilizzando anche lo strumento della maturazione sessuale. L’istituto professionale si prende anche cura dei propri studenti sotto il profilo dei disagi esterni: famiglie in difficoltà, povertà anche intellettuale oltre che economica, disagi di vari generi che si ripercuotono sul giovane quasi sempre senza che egli o essa ne abbia contezza o, meno che mai, coscienza.

Dei propri studenti l’istituto professionale ha cura sotto tutti questi profili e non solo per la sensibilità dei propri insegnanti, sensibilità che potrebbero avere o non avere, ma proprio strutturalmente fornendo servizi interni di counseling o psicologici, perseguendo un contatto continuo con i servizi sociali territoriali e le famiglie, strutturando programmazioni articolate e con metodologie didattiche adatte al singolo individuo con bisogni educativi speciali o con difficoltà di lettura, scrittura e calcolo: non ultimo, l’esenzione dalle tasse scolastiche per le famiglie a basso reddito o in vari generi di difficoltà economiche. La cura che l’istituto professionale ha per i propri ragazzi passa da tutti questi aspetti principalmente didattici ma non solo.

Si dice spesso il “mio studente” o la “mia classe” o i “miei studenti” come i genitori dicono i “miei figli” o “mio figlio” o “mia figlia” con il medesimo significato seppur con ovvie diverse sfumature di senso.