Didattica in corpore vili

Categoria: Riflessioni e articoli
Pubblicato Lunedì, 15 Febbraio 2021 00:41
Scritto da Conversazione0
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Introduzione

 

Le note che seguono sono pensate come articoli di giornale, poi non pubblicate grazie allo stile poco conciso e troppo forbito rispetto ai comuni stili di lettura perlopiù in voga in un’Italia in preda ad uno straziante “analfabetismo di ritorno”. “Di ritorno” da dove è poi un mistero. Sembra più facile che l’illusione prima risorgimentale e poi fascista dell’alfabetizzazione di massa sia sempre stata nulla più che una chimera. Né meglio ha saputo fare, nonostante le apparenze, gli sforzi didattici della ricostruzione e del boom economico con gli anni della televisione di stato. Al più, è riuscita ad impoverire una forma espressiva personale ed emotiva come quella dei dialetti e dei vernacoli. In ogni caso, il risultato è che non si è comprensibili se non si usano “parole povere”. Il correlativo fra “povertà di parole” e “povertà di pensiero” è immediatamente evidente e non merita approfondimenti. In poche parole si dice poco, nel silenzio non si dice nulla seppure si può molto significare.

Le note che seguono sono dunque linguisticamente difettose per eccesso formale o verbale o di profondità. L’intento pubblicistico con cui sono nate, per contro, dà ragione della loro superficialità. Si è cercato di mettere sul piatto un ragionamento sconnesso sulle didattiche, sugli apprendimenti e sugli insegnamenti cercando di essere più esauriente possibile e, al contempo, più possibile laconico. Il risultato sono degli appunti, niente più che note, su ognuna della quali si potrebbe/dovrebbe approfondire non poco.

Ma insomma, le avevo scritte; tanto valeva che qualcuno le leggesse!


Insegnanti si diventa

 

Per quanto ci si sforzi con studi, osservazioni, sperimentazioni, la didattica non è e per fortuna non è mai stata e non potrà mai essere una scienza esatta. Questo non vuol dire che ci si può svegliare una mattina ed essere un insegnante. Insegnanti non si nasce: si diventa. A fare scuola s’impara. Per questo non è un talento ma una professione. E per questo si viene pagati. E per questo, anche, è un lavoro e non un divertimento o uno svago: è vero che è il più bel mestiere del mondo e comunque un mestiere che non basta farsi piacere per saperlo oppure poterlo fare. Le caratteristiche personali non bastano. Ciò che fa la scuola sono in primo luogo le persone, è vero: ed in ogni scuola si troveranno sempre insegnanti bravi e somari così come si troveranno studenti somari e bravi. Le persone sono variegate ovunque. Quello che fa la differenza è la struttura della scuola; che servizi offre, perché li offre, qual è la sua filosofia di fondo, perché esiste in quel modo ed in quella forma. Serve o no?

Ed è proprio sotto il profilo strutturale che sento di poter spezzare qualche lancia a favore dell’istituto professionale.


Competenza versus conoscenza

 

Che a scuola ci si vada per imparare non è vero perché s’impara sempre e ovunque. Gli uomini e le donne, che lo sappiano o meno, che ne abbiano o meno coscienza, non smettono mai d’imparare perché imparare è nella natura dell’uomo. “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, dice Dante all’inizio del Convivio scritto fra il 1304 ed il 1307 citando l’Aristotele della Metafisica. Noi oggi possiamo dire che è un bisogno causato dalla necessità di sopravvivenza della specie. Questo imperativo biologico non vale solo per l’essere umano ma anche per gli animali e per questo si può insegnare al cane a riportare il legnetto.

La particolarità della scuola non sta nella conoscenza di per sé, tout court: sta nel fatto che essa propone, come proprio particolare servizio, una strutturazione delle conoscenze. È per via della strutturazione che quello scolastico è un tipo formale di apprendimento a fronte di altri tipi di apprendimenti informali o non formali che si possono comunque sviluppare in contesti diversi. La scuola non è inutile. Il tipo di conoscenza che propone l’istituto professionale è una conoscenza finalizzata allo svolgimento di una professione: non è conoscenza astratta ma sapere pratico. La chiave di ciò che s’impara all’istituto professionale non sta nel sapere qualche cosa che si chiamano “nozioni”: la chiave di ciò che s’impara all’istituto professionale è nel saper usare quelle nozioni per raggiungere delle finalità o degli scopi che vanno dalla creazione di macchinari e apparecchiature alla loro messa in opera. Dalla realizzazione di un apparato alla sua manutenzione, riparazione o sostituzione. La chiave di ciò che s’impara all’istituto professionale non è il sapere inteso come conoscenza ma il saper fare inteso come competenza. Questa divaricazione fra sapere e saper fare, o fra conoscenza e competenza, è quello che differenzia l’istituto professionale dal liceo.

Intendiamoci, però: non esiste una competenza dove non c’è conoscenza ma la semplice conoscenza senza competenza è inutile o addirittura dannosa, in certe circostanze storiche.

È di dominio pubblico e del tutto evidente il fatto che a capo dei lager nazisti fra il 1939 ed il 1945 non c’erano emeriti ignoranti o manovali o metalmeccanici ma persone dotate di una certa cultura e sensibilità che sapevano distinguere fra un quadro di Leonardo e un paesaggio da salotto o fra una sonata di Schubert e una danza popolare.

L’istituto professionale fornisce forse poche nozioni, se paragonato a un liceo, sotto il profilo strettamente culturale ma in ogni caso fornisce quelle che servono per poter operare: e, perché no, anche culturalmente.


La cura

 

Noi, nella nostra lingua, chiamiamo “voler bene” uno stato affettivo ed emozionale. Il voler bene ad una persona si manifesta come un prendersi cura di quella persona. È in questo modo che i genitori si occupano dei loro figli e gli vogliono bene. Ma, così come la didattica e la pedagogia non sono scienze esatte, neanche fare i genitori lo è. Non si è mai genitori: si impara sempre ad esserlo. In questo stesso senso non si è mai insegnanti: si impara sempre ad esserlo. Ed è per questo che si può insegnare solo quel tanto che si impara nello stesso momento in cui si sta insegnando. Anche i genitori imparano dai loro figli via via che crescono: nessun genitore è lo stesso uomo o la stessa donna di prima di avere un figlio. Questo rapporto di apprendimento reciproco è un rapporto vitale, arricchente e soddisfacente che fa del mestiere di insegnante il più bel mestiere del mondo.

Noi indichiamo anche con “curare” il guarire da uno stato di malattia. Ora, è evidente che non si può guarire, altrimenti non esisterebbe la morte. Il curare è perciò solo, a malapena e non sempre, un esorcizzare la paura, il dolore, la morte che inevitabilmente esistono. Curare è dunque, ancora una volta, aver cura di qualcosa o di qualcuno; alla fin fine, voler bene a qualcosa o a qualcuno.

Questo è il senso e il modo nel quale l’istituto professionale ha cura dei propri studenti. Non solo e non principalmente perché l’adolescenza è sempre e ovunque in ogni tempo un’età piena di paura e di dolore che solo gli affetti che si manifestano con la cura possono esorcizzare: quegli affetti che infatti i giovani di quell’età vanno cercando continuamente ed affannosamente utilizzando anche lo strumento della maturazione sessuale. L’istituto professionale si prende anche cura dei propri studenti sotto il profilo dei disagi esterni: famiglie in difficoltà, povertà anche intellettuale oltre che economica, disagi di vari generi che si ripercuotono sul giovane quasi sempre senza che egli o essa ne abbia contezza o, meno che mai, coscienza.

Dei propri studenti l’istituto professionale ha cura sotto tutti questi profili e non solo per la sensibilità dei propri insegnanti, sensibilità che potrebbero avere o non avere, ma proprio strutturalmente fornendo servizi interni di counseling o psicologici, perseguendo un contatto continuo con i servizi sociali territoriali e le famiglie, strutturando programmazioni articolate e con metodologie didattiche adatte al singolo individuo con bisogni educativi speciali o con difficoltà di lettura, scrittura e calcolo: non ultimo, l’esenzione dalle tasse scolastiche per le famiglie a basso reddito o in vari generi di difficoltà economiche. La cura che l’istituto professionale ha per i propri ragazzi passa da tutti questi aspetti principalmente didattici ma non solo.

Si dice spesso il “mio studente” o la “mia classe” o i “miei studenti” come i genitori dicono i “miei figli” o “mio figlio” o “mia figlia” con il medesimo significato seppur con ovvie diverse sfumature di senso.


Rewind

 

Già ai bambini molto piccoli si chiede: “cosa vuoi fare da grande?” Lo si chiede per gioco ma per i bambini il gioco è appunto l’unica cosa davvero seria. Dalle risposte che i bambini danno con tutta la serietà loro possibile si può misurare il divario generazionale. La mia generazione rispondeva con delle assurdità come “da grande voglio fare l’astronauta”. La generazione più recente risponde invece con cose anche più assurde come “non voglio fare niente” o “voglio fare Flavio Briatore”.

Anche considerando che il contenuto sostanziale di quelle assurdità infantili facete ma molto serie sia il medesimo, cioè appunto l’assurdità, cambia generazionalmente la rappresentazione plastica di quelle assurdità. Si è invece erroneamente pensato, già nell’ultimo mezzo secolo, che un ragazzo di tredici anni del ventesimo o ventunesimo secolo sia in grado di decidere cosa fare da grande. In realtà, il contenuto di una risposta alla domanda “cosa vuoi da grande” da parte di un tredicenne è solo di poco meno assurdo di quello di un bambino di cinque o sette anni. Né poteva essere diverso nel diciannovesimo o diciottesimo secolo. L’ovvia conseguenza è che nel diciassettesimo secolo come nel ventunesimo sono in realtà i genitori che sostanzialmente scelgono e decidono per il futuro dei loro figli. Né può essere diverso da così, nemmeno sotto il profilo giuridico. I genitori possono sì tenere in conto i desiderata dei loro figli ma dei genitori è la responsabilità di quella scelta a quell’età. Compito ingrato, forse, ma logico e giuridicamente disciplinato. Non è possibile, d’altronde, abiurare alla genitorialità: di quella scelta i genitori hanno responsabilità e se la devono assumere. L’idea che un ragazzo di tredici anni possa decidere davvero, davvero scegliere del proprio destino futuro non può che essere una scusa o una pia illusione. È solo un poco più avanti, con gli sviluppi adolescenziali, che il ragazzo può accettare o rifiutare le scelte fatte per lui, in sua vece: accettarle o rifiutarle sia nel merito che nel metodo. È questa quella che si chiama “crisi adolescenziale”.

Una proposta, dunque, sul futuro futuribile, cioè realizzabile, dei ragazzi la si presenta non ai ragazzi stessi ma ai loro genitori. Questo scarto rispetto al destinatario della proposta formativa, la scuola lo sconta sul piano della demotivazione, depressione, scontento, fallimento dei propri studenti.

La proposta dell’istituto professionale si indirizza verso il mondo del lavoro a media specializzazione. Certamente, a termini di legge e di Costituzione della Repubblica Italiana, anche la proposta formativa dell’istituto professionale deve comunque essere tale da consentire l’accesso universitario e rendere così possibile la mobilità sociale. Ma l’istituto professionale deve anche formare per l’accesso immediato al mondo del lavoro al termine del percorso di studi superiori che finisce con l’esame di Stato. Rispetto ad una formazione liceale l’istituto professionale ha una proposta ed un compito in più. La formazione liceale è il traghettamento da un percorso didattico – quello delle scuole medie – ad un altro percorso didattico – quello dell’università. Come sanno tantissimi studenti ex-liceali, il loro diploma di maturità ha ben poca o nulla spendibilità sul piano lavorativo. Al contempo, i loro coetanei degli istituti professionali hanno l’esito esattamente opposto, per quanto ne abbiano meno coscienza, specialmente in anni di crisi economiche e pandemie varie. Le statistiche sulla disoccupazione giovanile ci dicono che i disoccupati provenienti da istituti professionali sono di gran lunga meno numerosi di quelli proveniente da licei o altri istituti di medio-alta formazione. Questo stato di cose ha fatto parlare di “disoccupazione intellettuale” ed è questo il motivo della cosiddetta “fuga dei cervelli”.

La proposta formativa degli istituti professionali lascia aperta e, in qualche modo, procrastina a tempi più maturi la scelta individuale di cosa vuoi fare da grande: si può andare a lavorare o continuare a studiare o entrambe contemporaneamente. Certamente, la scelta lavorativa non coinvolge – e non può farlo – un profilo di alta specializzazione. Uno studente che esce diplomato da un istituto professionale non può aspirare ad una professione da ingegnere: al massimo può essere un tecnico. Quello che fornisce l’istituto professionale è un profilo di media specializzazione e tuttavia si tratta pur sempre di un profilo tecnico specialistico. Il fatto non secondario è che può continuare a desiderare di fare l’astronauta e può provare concretamente a diventare astronauta davvero. Viceversa, uno studente proveniente da un liceo può solo aspirare, come impiego immediato, a bassi profili professionali dequalificati seppure non dequalificanti – perché ogni mestiere onesto è meritevole e dignitoso. Certamente, anche il liceale può continuare a desiderare di fare l’astronauta ed impegnarsi per realizzare il proprio desiderio, probabilmente anche con maggiori chance di successo rispetto al suo coetaneo dell’istituto professionale. La scelta a cui si trova di fronte un ex studente di liceo è una scelta manichea: o astronauta o cameriere. Viceversa, il bivio a cui si trova di fronte l’ex studente dell’istituto professionale è molto più moderato: egli può scegliere liberamente fra lavorare con un impiego a bassa qualificazione o continuare a studiare anche al fine di migliorare la propria qualificazione. Ma soprattutto può scegliere cosa fare da grande con le libertà e l’autonomia di una persona ormai adulta.

C’è un carattere di irreversibilità nella scelta fatta a tredici anni su cosa si vuole fare da grande. Irreversibile e tuttavia procrastinabile, nel caso si scelga un istituto professionale. Irreversibile perché nella vita non esiste il “rewind”, per quanto i giovani non ne abbiano percezione.


Le didattiche alternative

 

Le metodologie didattiche che la pandemia ha costretto a mettere in campo erano inefficaci in parte o totalmente ma hanno portato agli occhi di tutti che è possibile e opportuno proporre e sviluppare didattiche alternative rispetto alle lezioni frontali classiche alle quali le nostre esperienze scolastiche pregresse ci hanno più o meno abituato.

Le didattiche alternative sono ben note agli istituti professionali. Non parlo della didattica a distanza, ovviamente, che è una stupidaggine assoluta per come è concepita. Parlo invece di quelle didattiche che possiamo definire “laboratoriali” o “sperimentali” per le quali quasi tutte le scuole medie di secondo grado sono o sarebbero o potrebbero essere tecnologicamente attrezzate. Ma l’attrezzatura culturale, concettuale, fattiva ed operativa è ancora prerogativa degli istituti professionali i quali, infatti, si avvalgono ancora della facoltà di poter offrire alla loro utenza un monte ore cospicuo di attività nei laboratori. Certo si deplora qui, come lo si è fatto negli ultimi trent’anni (a partire dal cosiddetto “progetto Brocca”) la notevole e progressiva riduzione delle ore nei laboratori così come erano concepiti nel vecchio ordinamento scolastico della prima repubblica (ma era “vecchio” davvero?). Tuttavia ne è rimasto ancora abbastanza, dallo smantellamento degli istituti tecnici professionali, per poter articolare e fondare la loro proposta formativa sulla base delle didattiche nei laboratori.

Queste didattiche hanno come obiettivo quello di sviluppare il “saper fare” degli studenti, la capacità di utilizzare le proprie conoscenze in maniera finalizzata ad uno scopo operativo. Lo sviluppo di questa capacità di saper fare avvicina la preparazione scolastica alle opportunità di lavoro post diploma. Al contempo, le conoscenze acquisite rendono possibile e plausibile l’accesso universitario: prioritariamente, s’intende, agli ambiti universitari tecnico-scientifici ma non solo.

L’intento e l’obiettivo delle didattiche nei laboratori è quello di insegnare agli studenti a collegare mani e cervello così da creare soggetti consapevoli della loro professionalità e della propria umanità; dietro l’assunto che l’essenza umana è “lavoro” e che ciò che distingue l’uomo dalla bestia non è il pensiero ma l’attività orientata allo scopo. La consapevolezza di questo “orientamento” delle proprie attività rende sensato vivere, pieno di significato l’essere “umani” e, infine, lo sviluppo dei rapporti sociali ed interpersonali.

Non è vuota retorica o presunzione, dunque, ritenere che l’intento degli istituti professionali è ottenere dai propri studenti la loro stessa felicità.


L’attualizzazione

 

In Italia l’istruzione è obbligatoria per legge fino alla maggiore età. Fino a 16 anni c’è l’obbligo scolastico che consiste nell’andare a scuola, dopodiché c’è l’obbligo formativo che vuol dire che un giovane, fra i 16 ed i 18 anni, può non andare a scuola ma deve comunque conseguire una formazione di qualche genere: con tirocini aziendali, ad esempio, o con corsi di formazione specifici. Ma solo il diploma di maturità conseguito in una scuola pubblica dà la possibilità di accesso all’università.

Poiché la legge interviene quando se ne ravvisa una necessità, l’obbligo scolastico si è reso necessario per arginare l’abbandono scolastico. Questa necessità non si era ravvisata fino alla seconda metà dell’ultimo decennio del vecchio millennio perché il fatto è che andare a scuola, o anche il semplice studio, un tempo era cosa sensata per i giovani stessi che di buon grado si sacrificavano a fare gli studenti sia come ascensore sociale sia come semplice fatto che era (ed è ancora) la formazione che fornisce un primo accesso al mondo produttivo. Nel corso degli ultimi tre decenni il senso che la scuola aveva per i giovani è largamente scemato o venuto meno. La società ha cercato, e tuttora cerca, di porre rimedio a questo vuoto di senso per via di giurisprudenza che, però, non è il mezzo proprio della scuola.

Gli istituti professionali sono in grado di far fronte al vuoto di senso degli studenti in parecchi e diversi modi.

In primo luogo favorendo i rapporti fra pari con le didattiche alternative: ad esempio sollecitando i lavori di gruppo o momenti di lezione dialogata. Questo tipo di didattica è quello che è totalmente mancato nella didattica a distanza e ne sancisce il pressoché totale fallimento.

In secondo luogo, però, mettendo in evidenza quella che è la connessione fra le cose: mischiando insieme teoria e pratica con le attività nei laboratori, sollecitando la consapevolezza più che la conoscenza degli argomenti trattati, eventualmente in forma laboratoriale. Può darsi che, così facendo, si riesca a fornire agli studenti una minore quantità di conoscenze (del che si dubita, dal momento che non c’è competenza senza conoscenza), ma si ottengono due risultati socialmente e professionalmente rilevanti: un’estesa consapevolezza delle proprie conoscenze ed un arricchimento del senso di esse e del ruolo significante che le forme di conoscenza hanno nella vita di ciascuno.

Le didattiche che riescono a raggiungere questo scopo sono ben presenti e largamente utilizzate negli istituti professionali. Varrà, a titolo di esempio, la differenza, non immediatamente evidente ai non addetti ai lavori, fra didattica “laboratoriale” e didattica “nei laboratori”. La didattica “in laboratorio” è quella specifica degli istituti professionali che prevede l’uso di ambienti e strumenti particolari che afferiscono all’ambito professionale. Con didattica “laboratoriale”, invece, si intende l’impiego di tecniche pedagogiche diverse e alternative alla didattica frontale: ad esempio il dialogo educativo, il problem solving, il brain storming, la videoproiezione guidata e moltissime altre tecniche che si sono sviluppate negli ultimi anni e tuttora sono materia di ricerca.

Non solo, dunque, il significato delle cose e della propria vita si apprende attraverso una attualizzazione ovvia degli argomenti che prevedono un riscontro nella vita quotidiana extrascolastica degli studenti, ma anche attraverso una modernizzazione delle tecniche di insegnamento nelle quali gli istituti professionali si sono dimostrati spesso all’avanguardia.

 


Facile navigare

 

“Navigare / è necessario; non è necessario / vivere”: così cominciano le “Laudi del cielo, della terra, del mare e degli eroi” di Gabriele D’Annunzio.

Parafrasando e metaforizzando possiamo dire: “non è necessario sapere ma saper utilizzare quel (poco) che si sa”. Questo è uno snodo cruciale nella scuola da almeno tre quarti di secolo. Su questo terreno si sono incontrate, scontrate, articolate le didattiche delle scuole europee e su questo si differenzia la scuola italiana da quella francese o anglosassone. Diversi stili di insegnamento e di apprendimento si mischiano, convivono e confliggono nel dibattito e nella pratica dei vari paesi europei di fronte alla questione se la scuola debba fornire competenze o conoscenze, quante e quali competenze, quante e quali conoscenze.

La struttura fondamentalmente liceale e licealizzata della scuola italiana ha la sua origine storica e la propria tradizione nella filosofia liberale crociana e gentialiana, postehegeliana. La sua espressione più tradizionale è la lezione frontale su base storicista. Così, la filosofia è diventata “storia della filosofia” e la letteratura “storia della letteratura, salvo poi ridurre al lumicino la storia vera riducendone il monte ore, segno evidente che l’impianto didattico tradizionale non sta più in piedi.

Altre tradizioni, come quella francese, interpretano la storia come una scienza umana cosicché, frequentemente, una lezione di storia non racconterà più un fatto ma piuttosto quali sono o sono stati i meccanismi sociologici o economici che quel fatto hanno prodotto ed articolato. Altre ancora, come quella anglosassone, tenderanno a modellizzare, etichettare, specializzare e scientificizzare i fatti di vita e di cultura.

Ora, non si tratta di scegliere e di decidere quale tradizione sia o meno la migliore: è una scelta che neanche si pone perché ognuno ha la sua tradizione ed anche noi abbiamo la nostra. Non siamo italiani per scelta ma per destino.

Si tratta, invece, di vedere quali principi, quali tecniche, quali modi sono più o meno efficaci per raggiungere uno scopo.

La scelta dell’istituto professionale non è ambigua ma netta e precisa perché così sono o, almeno, così si debbono interpretare e comprendere i segnali delle società attuali: con chiarezza e nettezza ma anche con la consapevolezza di poter sbagliare.

Così, con questa nettezza, l’istituto professionale è decisamente fondato sulla creazione di competenze, fermo restando che non esiste competenza senza conoscenza ma anche che per fare grandi competenze non sono necessarie grandi conoscenze.

In questo senso “navigare è necessario, non è necessario vivere”: saper fare (che include anche il pensare) è necessario, non è necessario sapere.

 


L’attenzione

 

L’apprendimento richiede almeno due requisiti: attenzione e memoria. Nessuna di queste due cose è un fatto automatico, meccanico o scientifico. Per questo motivo non si può insegnare con la semplice imposizione delle mani e per questo motivo la didattica non è una scienza esatta.

Certamente, una discussione su cosa è la memoria e quali sono le tecniche migliore per attivarla è lunga, complessa e molto tecnica. Basterà qui dire che ciò che chiamiamo “ragionamento” non è altro che il collegamento fra memorie diverse. È in questo senso che dico “collegare il cervello con le mani”: perché anche stendere un semplice cavo per un impianto civile non è una mera operazione di sartoria come svolgere una matassa: richiede un ragionamento basilare in relazione alle misure del cavo, alla sua lunghezza ed al suo diametro. Per fare questo semplice ragionamento bisogna che l’operatore abbia in mente (cioè in memoria) un paio di semplici principi elementari ed eventualmente almeno una o due formule per sviluppare calcoli al volo almeno approssimativi. È questo tipo di memoria, “memoria operativa” se vogliamo, che l’istituto professionale sviluppa e di cui si serve per formare negli studenti le competenze di cui abbisognano.

Per far ciò, ancora una volta, si serve delle didattiche alternative.

Infine, è vero che esiste un apprendimento, che potremmo chiamare “inconscio”, visibile a tutti: s’imparano delle cose nei più svariati modi; dalla conversazione al bar, alla televisione, al cinema, dalle esperienze più semplici alle più complicate azioni professionali. Che si possa imparare in ogni circostanza, anche senza saperlo in un primo momento, anche senza realizzare immediatamente che si è imparato qualcosa e senza neanche sapere cosa, è autoevidente. Il dato esperienziale dell’apprendimento è talmente ovvio che si è constata l’esistenza di almeno tre tipi di circostanze di apprendimento: formale, informale e non-formale.

L’apprendimento formale è quello che si realizza a scuola, cioè in un luogo deputato alle pratiche didattiche e la cui finalità e sviluppo sono orientati all’apprendimento intenzionale.

L’apprendimento informale è quello che si realizza in luoghi non specificamente dedicati all’apprendimento: è di questo tipo, ad esempio, lo stage aziendale o il tirocinio ma anche i corsi specifici che organizzano le aziende (conferenze, convegni, workshop, corsi di aggiornamento). È in questo “apprendimento informale” che ha il suo senso e la sua ratio la tanto vituperata e depauperata alternanza scuola-lavoro. Nell’apprendimento informale è ancora presente l’intenzionalità di imparare.

L’apprendimento non-formale, infine, realizza quello che ho chiamato “apprendimento inconscio”: s’impara qualcosa nelle circostanze più svariate che nulla hanno a che fare con i luoghi o l’intenzione di imparare (al cinema, al bar, in conversazione o, genericamente, in ogni rapporto con gli altri).

L’istituto professionale sviluppa tutti questi tre tipi di apprendimento grazie alla cura che pone verso i propri studenti, ai loro tempi di attenzione ed al benessere che ad essi è collegato.

I tempi di attenzione sono una caratteristica generazionale: fino alla generazione successiva alla mia, cioè fino ai genitori degli attuali studenti, i tempi di attenzione medi si attestavano sui 45/50 minuti. La generazione attuale mantiene, invece, un tempo di attenzione medio di 15/20 minuti. Per questo motivo le “ore” di lezione non hanno più motivo di esistere così come erano pensate ab origine.

Per di più, l’attenzione scaturisce dall’interesse e quest’ultimo direttamente dal benessere. Come anche la piramide di Maslow mostra, un popolo affamato non fa rivoluzioni ma solo rivolte: cioè, lo studente che è in stato di bisogno o disagio psicofisico non potrà mai essere interessato ad imparare alcunché oltre le proprie necessità.

È con le didattiche alternative, “laboratoriali” ed “in laboratorio”, che l’istituto professionale pone attenzione e dà risposte, prendendosene cura, ai bisogni dei propri studenti al fine di suscitare in loro quell’interesse che, solo, sviluppa l’attenzione sulla quale si struttura la memoria e, alla fine, competenza e consapevolezza.