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"Un'altra gioventù" di Piero Fabbrini

Scritto e detto Ragionamento su: “Un’altra gioventù” di Piero Fabbrini

Capitolo 1.

La prima cosa originale che troviamo nel racconto di Piero Fabbrini “Un’altra gioventù”[1] è questa: “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io”. In italiano standard vuol dire, approssimativamente, “guadagno abbastanza”. Più precisamente significa qualcosa di questo genere: “ho uno stipendio non eccezionale ma talmente dignitoso da poter essere invidiato dalla gente”, più o meno. Il discorso diretto “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io” è il primo che pronuncia il personaggio Muzio il quale è o pare, in prima approssimazione, almeno uno dei personaggi principali.

La prima osservazione da fare è che è una frase in vernacolo. La differenza fra dialetto e vernacolo è nota ma gioverà ricordare almeno una delle caratteristiche che li differenziano e che fa si che la frase di Muzio non possa essere considerata dialettale ma solo vernacolare: il vernacolo mantiene la struttura e la sintassi dell’italiano standard, il dialetto no. Entrambe però, sia il vernacolo che il dialetto, piegano la lingua sotto il profilo fonematico in modo da abbreviare, arricchire o, talvolta, ribaltare i significati. Nella piegatura fonematica ci sta quasi tutto: l’apocope, l’aferesi o la sincope per lo più ma anche il fenomeno della gorgia[2] che è tipicamente toscano. I personaggi che Piero Fabbrini mette in scena parlano perlopiù così e, nel racconto, il ricorso al discorso diretto è assai cospicuo. Perfino il dialetto lombardo, parlato dalle due sorelle Flora e Olimpia, è per così dire “vernacolarizzato” o trasfigurato fino a rendere il lombardo con singole parole piuttosto che con la costruzione della frase come sarebbe naturale. Di più: il milanese è talmente toscanizzato che lo si intende come milanese solo dall’uso di alcune parole poco frequenti o addirittura inesistenti in toscano perché, per il restante, è reso con le medesime caratteristiche vernacolari del toscano (le già citate tecniche di apocope, aferesi e sincope).

L’uso del vernacolo che fa Piero Fabbrini non è gratuito. C’è certo del compiacimento perché, essendo toscano, la lingua più naturale e congeniale all’autore è sicuramente appunto il vernacolo. C’è anche una ragione strutturale del racconto ed è quella di rendere sia l’ambientazione con una marcata caratteristica regionale sia l’ambiente familiare, ossia la dimensione più intima del parlato, dei protagonisti. Fin qui sarebbe ancora quasi tutto regolare e non originale, sennonché c’è un’altra ragione, che considero principale e fondamentale, per l’uso del vernacolo: ed è la valenza espressiva.

Il vernacolo aggiunge un surplus di significato alla narrazione proprio grazie allo scarto[3] che si produce fra vernacolo e lingua standard. Di più: abbrevia di gran lunga la narrazione. Il vernacolo comprime in poche parole significati che, in lingua standard, potrebbero essere detti solo con giri di frasi più o meno complesse. Naturalmente, in questa compressione, si perde in chiarezza ma si guadagna in leggerezza. La prima frase di Muzio (“ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io”) produce una risonanza di sfumature di senso fra l’ironico, il canzonatorio e l’orgoglioso autocelebrativo: sfumature di senso, insomma, che è difficile persino rendere più chiare e per questo le chiamo “risonanze” che non sono solo risonanze emotive o, comunque, non principalmente; sono risonanze semantiche, catene di significati. È la struttura stessa della lingua che qui si esprime, la sua molteplicità ed articolazione dei significati, il suo stesso valore d’uso. È per questo che esistono le lingue.

Nell’uso del vernacolo che ne fa Piero Fabbrini, però, c’è un difetto: non pone attenzione all’accentazione delle parole. Faccio solo l’esempio della famosa “c” che i toscani si mangiano. Intanto gli esiti della gorgia possono essere di due tipi: la soppressione totale o l’aspirazione delle consonanti. Permanenza, aspirazione o soppressione dipendono appunto dalla disposizione degli accenti nella frase. Ad esempio: “guarda la casa” diventa “guarda la hasa” (aspirazione) o “guarda la ‘asa” (soppressione). (Soppressione o aspirazione sono varianti locali.) Questo accade perché l’accento cade sulla prima “a” di "guarda" mentre la seconda “a” rimane atona e così anche la “a” dell’articolo. Il raddolcimento, o la soppressione, della “c” rende possibile l’elisione in modo da creare l’andamento giambico della frase. Viceversa “guarda a casa tua” resta invariato perché l’elisione avviene con la sillaba precedente, il che consente, ancora una volta, di mantenere l’andamento giambico. In pratica, in presenza dell’articolo determinativo (femminile o neutro) fa cadere la consonante mentre l’articolo indeterminativo no. Nella frase di Muzio “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io” la soppressione della “c” è quindi impossibile nel parlato. Mentre invece è corretta, e sacrosanta, l’elisione in “ce n’avesse” che contiene un accento secondario nel “ce” di inizio frase e, quindi, conserva il ritmo giambico. È chiaro che questa “regola del ritmo giambico” non è assoluta ma vale solo là dove sono possibili i fenomeni di gorgia. Per esempio “la gente” non può essere più addolcita di così né, tantomeno, soppressa perché, in quest’ultimo caso, si presenterebbe una ambiguità con “ ‘ente” impossibile da risolvere (perché la parola potrebbe essere “niente” o “mente” o “sente” eccetera). Però il toscano incorre nel rischio del raddolcimento eccessivo tanto che si possono presentare errori di scrittura come “giente” (la trascrizione più propria sarebbe “gjente” con la “i” palatizzata o, addirittura, “jente” con pronuncia di “j” come nel francese).

Al di là, però, delle disattenzioni prosodiche, frequenti ma non costanti nel racconto di Piero Fabbrini, l’uso del vernacolo nella narrazione è quantomai interessante ed originale. Che sia interessante l’ho appena mostrato; perché apre uno spazio di riflessione ed azione linguistica fin qui inesplorato e da perseguire infallantemente in funzione espressiva ed espressionistica. Che sia originale lo mostra la considerazione che esiste molta letteratura dialettale ma ben poca letteratura vernacolare[4]. Tuttavia, per gli esiti espressionistici che produce, è una tecnica da esplorare ulteriormente e largamente.



[1] Nuova immagine editrice, Siena 2020

[2] Riguarda le consonanti occlusive sorde scempie “k”, “t” e “p”, le relative sonore “g”, “d” e “b” e le affricate postalveolari “d͡ʒ” e “t͡ʃ” (approssimativamente la “gi” e la “ci” dolci).          

[3] Rimandiamo la discussione sul dispositivo dello “straniamento” alla parte 3 del presente saggio.

[4] In effetti mi viene in mente solo Giuseppe Giusti o i testi del “Vernacoliere” di Livorno che, però, è una pubblicazione apposita e specifica, come mostra il titolo stesso della rivista.