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Fenomenologia della didattica a distanza

 

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Nella marea di problemi che questo mestiere di insegnare comporta fin da molto prima della pandemia, gli insegnanti hanno fatto didattica a distanza che è una cosa che c’entra pochissimo con l’insegnamento.

Allora, intanto dobbiamo dire che non tutte le merci sono uguali e, per poter essere pagato, bisogna che un insegnante produca una qualche merce di un qualche genere. Chiamiamo questa merce con il nome convenzionale di “conoscenza”. Ora, a termini contrattuali, questa merce ha un prezzo. Quel prezzo è ancora calcolato come si calcolava il lavoro umano nella fabbrica fordista: quel prezzo, è calcolato a orario. Giusto per avere un riferimento medio: un insegnante piglia uno stipendio di circa mille e seicento euro al mese per fare, da contratto, diciotto ore settimanali per trentatre settimane all’anno più quaranta ore per le funzioni amministrative (collegio docenti, consigli di classe, scrutini) più altre quaranta ore per lo svolgimento di funzioni accessorie. A conto fatto, mediamente, un insegnante è pagato 30€ nette all’ora. Non voglio neanche discutere se sia una cifra ragionevole o meno, ognuno può giudicare da sé. Discuto solo due aspetti.

Uno: le ore effettivamente pagate sono sufficienti a fare questo mestiere?

Due: se il valore (economico) si calcola su base oraria, come si calcola la cifra all’ora?

Per quanto riguarda il punto uno, io non credo che ci sia nessun collega il quale riesce a farsi bastare le ore che gli sono pagate: tutti lavorano mediamente di più a meno che non si rifiutino coscientemente e consapevolmente proprio dietro la motivazione che stiamo facendo da anni, almeno venti, una parte di lavoro che non è pagato né contrattualmente né sostanzialmente. Lo facciamo perché siamo succubi del ricatto emotivo verso i nostri studenti, perché ci preoccupiamo di loro. Io penso che è il momento di finirla: si lavora per quel che è pagato e basta, e così facendo vedrete che cominceranno ad emergere i problemi già segnalati sopra che sono passati sotto silenzio finora perché gli insegnanti hanno volontariamente coperto i buchi, riparato le magagne e l’hanno fatto lavorando di più che non significa affatto che hanno lavorato meglio, anzi.

La seconda questione è leggermente più complicata ed impertinente. Ogni merce ha due tipi di valore: un valore di scambio, che è il prezzo a cui si vende, ed un valore d’uso, che è l’utilità di quella merce. Per poter essere venduta a basso prezzo una merce deve avere anche un basso valore d’uso. Ora, quale è il valore di scambio della merce “conoscenza” l’abbiamo visto; è circa 30€ nette all’ora. Quale è, allora, il valore d’uso della merce “conoscenza”? Beh!, allora diciamo che è superiore al valore d’uso delle pulizie domestiche ma è inferiore al valore d’uso di un idraulico. Se guadagna di più, un idraulico è più utile di un insegnante. Se guadagna di meno, una badante è meno utile di un insegnante. Questo è il fatto: ognuno può darne una valutazione etica personale, ma il fatto economico sta così. C’è un aspetto peggiore in relazione alla merce “conoscenza”: quello che ho chiamato il “prezzo” è, in realtà, il costo di produzione della merce, cioè quello che il proprietario del servizio offerto, che è lo Stato nel caso della scuola pubblica, paga in termini di stipendio. Intendiamoci, non è l’unica voce di spesa che riguarda la produzione della “conoscenza”: i locali, la manutenzione, le aule, le scuole hanno anch’essi un costo ma non sono in grado di calcolare a braccio quanto sia quel costo. Cioè, in realtà chi usufruisce del servizio non ne paga affatto il suo prezzo perché quello all’istruzione è un diritto costituzionalmente garantito come quello alla salute. Non possiamo dunque avere un’idea vera del valore d’uso della merce “conoscenza” per il motivo semplice che non sappiamo quanto la gente è o sarebbe disposta a pagarla. Io penso che se esistesse un… “mercato” della conoscenza, gli utenti sarebbero disposti a pagarla ben più di 30€ l’ora. In effetti, là dove esiste un mercato della “conoscenza” e cioè non a scuola ma nei settori culturali dei teatri, della musica, del cinema, dei libri, dei musei etc. c’è un pubblico e quindi ci sono gli acquirenti veri. Ecco: volete una valutazione degli insegnanti? Mettete in vendita le loro lezioni! Non è uno scherzo: c’è chi lo fa; YouTube è pieno solo che ancora non si pagano i video.

Ancora: il valore d’uso è un valore sociale. Non è un singolo agente del mercato che stabilisce il valore. Giocoforza, dunque, il valore della merce “conoscenza” varia in funzione della società in cui tale merce si vende e questo, al momento, è incerto. Quello che è certo, invece, è che, siccome si s-vende sul mercato a un pezzo irrisorio per l’utenza, l’utenza stessa sottovaluta largamente il valore d’uso di questa “merce”.

Durante la pandemia, le famiglie non hanno avvertito la mancanza della merce “conoscenza”: ma hanno avvertito che mancavano delle ore di intrattenimento per il proprio figlio. Come se un insegnante fosse appunto una badante, come se il mestiere dell’insegnante fosse quello dell’intrattenimento più o meno divertente dei ragazzi. E allora, se è questo il nostro mestiere, se è questo… siamo pagati decisamente troppo; più del doppio di una badante. Io, però, non penso che sia questo il mio mestiere: penso che sia ben altro e, se ho torto, sono disponibile ad essere licenziato più o meno in tronco. Io penso che la merce “conoscenza” sia una merce assai pregiata, per produrre la quale – o anche solo per diffonderla – occorre un lavoro abbastanza complesso che ho cercato di tratteggiare a grandi linee sopra. In funzione di quel valore d’uso al quale penso io, credo che le cifre salariali degli insegnanti siano largamente sottostimate rispetto alla merce che gli insegnanti producono. In questo, ho talmente ragione che, come accennato prima, le funzioni che vengono attribuite alla scuola sono sempre di più e sempre più complesse e per larga parte succedanee rispetto ad altre funzioni e servizi che dovrebbero fornire altre strutture.

Questo è il punto economico della questione. La posizione espressa qui può sembrare “aristocratica” o “discriminatoria”: come se dicessi che gli utenti della scuola dovrebbero pagarne il suo giusto prezzo. È del tutto evidente che nella scuola pubblica, proprio perché è pubblica e quindi disponibile a tutti, questa posizione non è sostenibile: almeno, fino a un certo punto. In realtà noi stiamo ragionando del tutto al contrario: in tutto il servizio pubblico (nella scuola come nella sanità) offriamo delle riduzioni in base al reddito. Cioè, chi è particolarmente povero e lo può dimostrare ha diritto ad alcune esenzioni. Questo funzionamento della società vuol dire una cosa molto grave: che la povertà è visibile ma la ricchezza no. Questo paradigma non mi trova consenziente. Se vogliamo ragionare così lo possiamo fare ma deve valere in entrambi i sensi. Propongo, pertanto, la seguente riforma: si stabilisca un prezzo equo per il valore d’uso dell’istruzione ed ogni studente che deve continuare ad essere obbligato ad andare a scuola nei termini in cui lo fa adesso paghi di tasca quel prezzo. Deve rimanere ovvio che lo Stato deve continuare a garantire l’istruzione anche a chi non può permettersi di pagare quel prezzo ma lo dovrebbe fare in maniera integrativa: non bisogna conoscere solo il reddito dei poveri ma anche quello dei ricchi che quel servizio, se possono e nella misura in cui possono, se lo pagano di tasca. Questo modo di intendere le cose è radicalmente classista, lo so da me e me ne rendo conto ma non è facendo finta, come si è fatto fino ad adesso, che la scuola pubblica non sia classista che veramente spariscono le differenze di classe. Perché ci sono ancora delle differenze DI CLASSE fra gli studenti di un liceo e quelli di un professionale. I criteri con cui gli studenti e le famiglie scelgono la scuola per sé o per i propri figli sono criteri classisti. Quindi si che sono classista; ma di… “quell’altra” classe!

Attenzione, però: deve essere assolutamente chiaro che la scuola pubblica deve essere disponibile e libera per tutti in funzioni delle proprie caratteristiche, dei propri desideri, delle proprie capacità in maniera indipendente dalla condizione economica delle famiglie e cioè esattamente al contrario di quel che succede adesso. Mi appello ad una uguaglianza sostanziale fra gli uomini, le persone e soprattutto ragazzi e studenti. È una uguaglianza sostanziale che già esiste per gli insegnanti: non c’è uno studente in Italia che è discriminato su base economica da qualsiasi proprio insegnante, perfino da uno poco bravo. La differenza, che io vorrei abolire facendo pagare il servizio all’utenza nei limiti del possibile, è una differenza che NON è nella scuola ma è nella società; non è negli insegnanti ma è nei genitori e nelle famiglie spesso anche inconsapevolmente.

Ci sono situazioni economiche che determinano posizioni sociali che precludono la visione più o meno complessiva della società. Le posizioni sociali, come effetto del tutto naturale[15], producono quello che si chiama “errore di posizione”: cioè, semplicemente, non è possibile vedere oltre a quello che è il proprio orizzonte (sociale)[16]. Uno degli elementi di blocco della mobilità sociale, per cui la scuola sta progressivamente smettendo di essere un “ascensore sociale”, è proprio l’errore di posizione. Questa situazione non è una circostanza scolastica, se volete non è neanche un problema scolastico: è una circostanza sociale alla quale la scuola da sola non può venire a capo perché tutta la meccanica è extrascolastica e addirittura è precedente all’attività scolastica, educativa, istruttiva.

Il fatto è che stiamo talmente regredendo dal punto di vista sociale e culturale, perché le cose vanno di pari passo, stiamo talmente regredendo che non ci sono neanche più visibili delle cose ovvie che erano palpabili e visibili anche solo trenta anni fa. Dove vogliamo arrivare con la smaterializzazione? Abbiamo già talmente smaterializzato il denaro che non riusciamo nemmeno più a vedere chi è ricco e chi è povero e non mi pare un ragionamento così raffinato l’osservazione che, se non riusciamo più a vedere chi è ricco e chi è povero, è perché siamo tutti poveri. Perché veramente non vediamo Flavio Briatore o Silvio Berlusconi: perché non frequentano le stesse strade mie, non vanno in vacanza dove vado io: li posso vedere se vengono a scuola dove insegno io e, nel qual caso, avranno un insegnamento esattamente uguale a quello degli altri perché è scuola pubblica.

Siamo talmente avanti con l’idea della smaterializzazione che durante a pandemia è stato smaterializzato anche l’insegnamento: questo è il significato della didattica a distanza. Con la didattica a distanza si è smaterializzata la merce “conoscenza” e privato di senso l’insegnamento. Però!, però… credo che sia palpabile e visibile a tutti e prima di tutti agli studenti che hanno potuto apprezzare in prima persona la differenza fra una didattica a distanza e una didattica in presenza. Perché l’insegnamento e anche l’apprendimento come meccanismo dialettico può funzionare come deve e come ha fatto per millenni solo in presenza. Il valore d’uso è sociale: e il meccanismo di apprendimento-insegnamento (che fin qui ho chiamato “conoscenza”) è un valore d’uso. Semplicemente, non può essere fatto e neanche ha senso farlo se non siamo in una società che ha bisogno delle conoscenze e delle competenze per poter funzionare.

Il meccanismo della didattica a distanza non è solo “smaterializzante” ma anche pervasivo. Fra i diritti costituzionali negati dalla pandemia c’è stato anche quello all’inviolabilità del domicilio: poter girare nudo per casa o fumare. E questo è il motivo per cui, quando ne ho avuto voglia, ho fumato anche durante le lezioni perché comunque ERO A CASA MIA. La mia sigaretta è l’affermazione e l’imposizione di un diritto costituzionale. Perfino quella affermazione è mancata ai nostri studenti: la libertà di essere in casa propria, altro che diritto all’istruzione. Abbiamo invaso la loro privacy come loro hanno invaso la nostra, del tutto in buona fede: uno dei significati di non accendere le videocamere dei computer o dei cellulari è stato proprio questo. I nostri studenti sono stati assai più bravi di noi nel non farsi violare!

Concludo con una osservazione apparentemente impertinente. Sta prendendo piede, nelle scuole, un meccanismo di “fedeltà”. In generale, le scuole ci tengono ai loro insegnanti e cercano di fidelizzare i dipendenti esattamente come fanno le multinazionali. Questo è ovvio perché la fidelizzazione è uno dei meccanismi che insegnano nei corsi di management ed ai Presidi, essendo per definizione “manager”, evidentemente è stato insegnato questo meccanismo che è un meccanismo di consenso con un ovvio significato economico. Per fortuna, ancora, i Presidi non gestiscono direttamente il personale ma cercano di crearsi un gruppo di insegnanti, per la scuola che dirigono, che sia un buon gruppo, un gruppo ottimale: per fare ciò è giocoforza che cerchino anche di creare difficoltà agli insegnanti che, secondo loro, non vanno bene per la scuola che hanno in mente. Non dico che si ricorra a meccanismi di mobbing o bullismo, ma le dinamiche che tutti possiamo vedere nelle scuole sappiamo benissimo che sono molto vicini a quelle situazioni più o meno spiacevoli. Anche se non siamo nel bullismo e nel mobbing, siamo perlopiù vicini a meccanismi di ostracismo. Questo è uno dei motivi, ma non il principale, per cui il fenomeno del burnout negli insegnanti ha una incidenza tripla rispetto al resto dei dipendenti pubblica. Il motivo principale del burnout l’ho già descritto: è quello del superlavoro, dell’attribuzione di funzioni extradidattiche che gli insegnanti non hanno la formazione né la possibilità di fronteggiare. La didattica a distanza è uno dei questi meccanismi di superlavoro.

Bisogna che questo superlavoro gli insegnanti, da domani, si rifiutino di farlo. Se non altro perché la “fedeltà”… “fidelitas” è stata istituita nel medioevo ma abolita dalla rivoluzione francese, con buona pace dell’aristocrazia terriera che così facendo ha perduto la propria rendita di posizione.

Esiste ancora una classe sociale di aristocratici le cui rendete elevate dipendono proprio (ancora) dalle rendite di posizione: li chiamiamo “speculatori”.

Così come la rivoluzione francese ha spazzato l’aristocrazia terriera latifondista cambiando il paradigma della ricchezza, quello a cui siamo di fronte adesso e negli anni a venire è esattamente questo.

Dobbiamo cambiare i paradigmi della ricchezza per cambiare quelli della scuola pubblica, dell’istruzione, della conoscenza.

 
 
[15] Rilevato nella sociologia francese degli anni ’70 e ’80, ad esempio Raymond Boudon, “L’ideologia”, Einaudi, Torino
 
[16] Anche Immanuel Kant, “Critica della ragion pura”, Laterza, Bari