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Fenomenologia della didattica a distanza

Fenomenologia della didattica a distanza

 

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Per tutto il periodo della pandemia[1] ho continuato a svegliarmi alle sei di mattina.

Non è stato facile rendersene conto perché la consapevolezza di se stessi è una faccenda complicata: più per alcuni che per altri ma facile per nessuno. È facile vedere che si fa una cosa come svegliarsi alle sei di mattina: il difficile è comprenderne il perché o il volerlo evitare o accettarlo come condizione d’esistenza o punto di forza. Tutti vediamo bene quello che fanno gli altri e anche, tutto sommato, anche quello che facciamo noi stessi seppure assai più confusamente: il difficile è nel capirne i motivi, il senso e considerare se e fino a che punto quello che si fa ci va bene o ci va male, ci fa stare male o bene. La consapevolezza, perfino quella di se stessi, è la vera “Nottola di Minerva” della metafora hegeliana. Alcune azioni sono re-azioni e queste ultime sono le più difficili da capire perché sono le risposte ad uno o più stimoli esterni e queste risposte tendono ad essere immediate, cioè poco ragionate consapevolmente. Una caratteristica della re-azione è appunto la sua velocità che è una contrazione del tempo di pensiero. Rispetto all’azione nella re-azione manca un sufficiente tempo di pensiero perché non è affatto vero che il pensiero è veloce. La riflessione richiede tempo. La riflessione richiede memoria: che è il tempo del tempo passato e futuro. La memoria è un tempo al quadrato da cui è escluso il presente perché è la memoria stessa ad essere il presente. Nella memoria predomina il passato ma è un passato filtrato semanticamente: i fatti passati vengono filtrati e reinterpretati in una chiave e secondo un filtro che è futuribile. La memoria si attiva in funzione di scopi futuri. Tutta questa operazione di pensiero, la riflessione, è complicata e lunga perché coinvolge tutto il tempo del mondo. Il tempo del mondo è quello che esiste per te ma non è solo un tempo personale ed individuale, è anche il tempo che è stato impiegato e cristallizzato in tutto ciò che vedi: il tempo che altri hanno impiegato a costruire palazzi e città, il tempo che altri hanno impiegato a scrivere i libri che tu ricordi e ormai fanno parte di te, il tempo che tutta la storia fin qui ha utilizzato per creare quella che a oggi chiamiamo civiltà.

Una delle mie re-azioni alla pandemia è stato continuare a svegliarmi alle sei di mattina, una re-azione che, ovviamente, non ho compreso subito ma che comincio a capire solo adesso a distanza di quattro mesi e chissà quanto tempo del mondo ancora mi servirà per comprenderla completamente.

In presenza di modifiche radicali della propria vita è probabile che il primo sentimento sia proprio la paura e la prima re-azione la fuga. Nel momento iniziale della pandemia c’è stato un “fuggifuggi” più o meno metaforico, uno spaesamento, in alcune circostanze perfino un panico. Abbiamo avuto paura e le indicazioni erano scarse, confuse, contraddittorie: non abbiamo saputo cosa fare, abbiamo fatto più o meno compulsivamente quello che potevamo fare, quello che ci sembrava più corretto o più giusto. C’è chi ha fatto finta di niente cercando di mantenere una calma che non c’era. C’è chi ha minimizzato e chi ha esagerato ma quasi tutto quello che abbiamo fatto erano operazioni di fuga perché comunque una paura l’abbiamo avuta tutti perfino quelli che si vergognano o si sono vergognati della paura che, invece, è un sentimento bello e positivo perché ti salva la vita quasi sempre perché fuggire è una buona arma di difesa anche se non certo impeccabile. È stato messo un freno al fuggifuggi che cominciava a diventare pericoloso perché poteva degenerare in panico, è stato messo un freno al fuggifuggi dai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

C’è voluto un papà! Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, che una volta si è definito l’ “avvocato degli italiani” si è invece dimostrato il “papà degli italiani”. È un fatto deplorevole perché significa che questo popolo italico è ancòra un popolo bambino. Un popolo che non si sa comportare col senso civico di una collettività nazionale o semplicemente umana. Un popolo familista perché non intende se stesso come membro di un consesso ben più ampio di quello familiare: questo sentimento infantile, emerso con grande evidenza nell’emergenza, è parecchio pericoloso. L’isolamento più pesante che molti di noi hanno provato per tutto il periodo della chiusura da pandemia è stato appunto l’isolamento dalla famiglia ed appena è stato possibile, le prime persone che ci siamo affrettati ad incontrare sono stati i familiari: figli adulti, nonni giovani (perché quelli più anziani è stato difficile ritrovarli vivi), genitori. Molto pericoloso, a costo di sembrare cinico.

Dunque, il primo sentimento è stata la paura e la prima reazione la fuga; la fuga dal fuori, la fuga verso casa, in casa, nello spazio sicuro della propria esistenza. Se la fuga è la reazione alla paura, la ricerca dello spazio sicuro è la reazione all’ansia. Lo “spazio sicuro” non è una cosa fisica ma psicologica. La parola “spazio”, in questo contesto, ha solo un valore metaforico. Perché è uno spazio sicuro anche un’abitudine, uno schema, un ordine, un elenco. I decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri hanno creato degli spazi sicuri il primo dei quali è stato la casa, il chiudersi in casa, ed in quella ognuno si è ricavato più spazi sicuri possibile. C’è stato un bambino siciliano il cui video girato dalla mamma ha circolato credo su tutti i gruppi di whatsapp, il bambino si chiama Claudio: il primo spazio sicuro che cerca è quello della famiglia (il nonno) e poi, piangente, alla fine del video si nasconde dietro una tenda e dice; “voglio stare un pochino da solo qui” (intendendo dietro la tenda). Tutti abbiamo fatto come quel bambino.

Per tutto il periodo della pandemia ho continuato a svegliarmi alle sei di mattina perché quella, essendo una abitudine, era uno dei miei spazi sicuri.

Paura e ansia, per adesso questo so di aver provato. So anche che queste sensazioni le abbiamo avute tutti ben oltre e ben al di là dei meccanismi di fuga variegati che ognuno ha messo in campo, ben oltre e al di là degli spazi sicuri che ognuno di noi ha identificato. In questo paese vivono sessanta milioni di persone circa e quindi abbiamo sessanta milioni di spazi sicuri e sessanta milioni di meccanismi di fuga e perfino multipli di queste cifre perché ognuno ha più di un modo.

Paura e ansia, sono abbastanza sicuro, ma non sono le uniche sensazioni che abbiamo avuto negli ultimi quattro mesi. Ci sono molte, moltissime sensazioni per descrivere le quali non abbiamo le parole e bisogna inventarle. Non ci sono abbastanza parole nelle lingue standard per parlare di ciò che pensiamo e sentiamo. Ricordo che in un racconto[2] uno scrittore inventò il concetto di “neolingua”. La “neolingua” è una semplificazione della lingua standard perché con le parole si possono dire troppe cose e se si possono dire si possono anche pensare ma né il “dire” né il “pensare” sono azioni positive nel romanzo distopico a cui faccio riferimento. Io non so se già parliamo una “neolingua” ma se così fosse vuol dire che siamo arrivati al limite di questa civiltà. Avverto che il linguaggio non è più sufficiente e questo vuole già dire che deve essere cambiato. Se la lingua è una delle componenti fondamentali di una civiltà, insieme al linguaggio deve cambiare anche la civiltà o, piuttosto, viceversa. Il rischio è che, a questo bivio, possiamo… “inventare” una lingua nuova o più semplicemente una “neolingua”. Questa “scelta”, che non è una vera scelta perché non dipende da nessuno in particolare ma dallo sviluppo delle lingue naturali che è ed è sempre stato un fatto storico-sociale, questa “scelta” dipende dal desiderio di semplificare e ridurre o di ampliare ed articolare i sentimenti. La semplificazione produce una “neolingua”, l’ampliamento una lingua nuova ma, indipendentemente di quale sia la preferenza individuale che ciascuno di noi accorda a queste soluzioni, io so di aver provato, oltre all’ansia e alla paura, miriadi di altre passioni, sentimenti, sensazioni, emozioni che non ho le parole per descrivere ma so che le sensazioni c’erano, ci sono state anche se… “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere"[3]. Tacere produce silenzio.

C’era un gran silenzio intorno durante la pandemia. Un silenzio come di notte, anche a mezzogiorno, ma di una notte tribale – la notte che l’uomo dormiva in grotte, su alberi, in fosse. Una notte di paura, un silenzio da paura. Poco a poco hanno preso piede gli uccelli: i piccioni, i merli che hanno occupato e attenuato quel silenzio di notte. C’era ancora il silenzio quasi assoluto dell’uomo ma veniva occupato dagli uccelli. C’erano solo due suoni umani ma ancora angosciosi, perfino più paurosi, se possibile, del silenzio di notte paleolitica: suonavano le sirene delle ambulanze e l’elicottero dell’elisoccorso del policlinico. Di rado due moto dei vigili urbani e l’auto dei carabinieri o della polizia che passano per il controllo del territorio. Quello che potevamo fare per rompere quel silenzio, era cercare i suoni più umani possibile: le musiche, le parole; Spotify, YouTube, Netflix. Di quello mi son accorto anche mentre lo facevo: della compulsione, della distrazione. Non interessava niente di quanto udivo o vedevo; importava solo rompere il silenzio. In tre mesi di chiusura in casa non sono riuscito neanche a leggere un libro che non fosse un audiolibro perché siamo abituati a leggere in silenzio ed è una pessima abitudine. Avrei dovuto leggere a voce alta e non l’ho fatto, non è stata una re-azione che m’è venuta. Non sono più stato nel silenzio! Ho sentito musica, radio, guardato video, films di cui non m’importava niente e dei quali non ricordo niente, così!... “tanto per fare”, tanto per “non stare” in silenzio. Perché io vivo solo e questa condizione è abissale. Non è migliore o peggiore di altre, ma abissale sì! Non ho fatto altro che distogliere lo sguardo dall’abisso e anche questo ognuno di noi l’ha fatto ma ognuno con il proprio pozzo. Di questo mi rendevo conto anche mentre lo vivevo, sapevo che guardavo e sentivo cose in maniera compulsiva, facevo uno zapping insensato solo per non vedere l’abisso ma non ho smesso perché la paura è meglio dell’insensatezza ma dare senso alle cose è una azione non una re-azione. Abbiamo vissuto mesi in cui non abbiamo fatto nessuna (o poche) azioni: abbiamo vissuto di re-azioni. Il “senso”, i significati non erano più attingibili, non erano più visibili né percepibili. Nemmeno il senso della verità. Per questo abbiamo dubitato di quasi tutto. Abbiamo dubitato della pandemia, della pericolosità del coronavirus, della validità dei meccanismi di difesa come quello di stare in casa (ma, in realtà, cercavamo solo una scusa per uscire di là). Abbiamo perduto il senso delle cose: ha funzionato solo l’abitudine come esorcismo per l’ansia, come fuga dalla paura. Il risultato è stato appunto un vuoto quasi assoluto di senso, una perdita di significati rispetto a cosa siamo diventati, dove andiamo, a far che. Un vuoto di senso, appunto, un pozzo, un abisso, un mare di notte e la riva fuori vista, da un’altra parte.

[1] 5 marzo-18 maggio 2020

[2] Orwel “1984”

[3] Ludwig Wittgensteina, “Tractatus Logico-Philosophicus”, Einaudi, Torino 1989, p. 175