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poesia italiana e varia letteratura a cura di Conversazione0

Temi di scuola

Introduzione

Chi se li può scordare gli anni della scuola? È una maledetta trappola: sono una rete da pesca quegli anni, una nassa dove si entra ma poi s’ingrassa e non ci si sa più uscire. Qualcuno ci rimane talmente impigliato che ci resta, a scuola, fino alla pensione: si chiamano “insegnanti”. Per fortuna, i più in un modo o in un altro ce la fanno a sgattaiolare e riescono perfino a fare un mestiere dignitoso e qualcuno riesce anche a farlo bene e con passione.

Io sono di quelli rimasti nella rete. Mi consolo con l’idea che non sono io prigioniero dentro ma gli altri prigionieri fuori. Però, più per scelta che per fortuna non ho niente a che fare con l’insegnamento della letteratura o dell’italiano: il mio, è tutt’altro campo. Quindi era parecchio tempo che m’ero dimenticato dei temi. Certo, erano altri tempi: molto più introspettivi di questi – e infatti io facevo sempre quelli che allora si chiamavano “temi di introspezione” che io credo adesso neanche esistano più.

Ad ogni modo, la cosa è andata che una collega me ne ha proposti quattro: non per me, ovviamente, ma perché servivano ad aiutare uno studente in difficoltà. Lo studente lo abbiamo aiutato, come da contratto di lavoro, ma la curiosità per i temi mi è rimasta e mi sono domandato: “come li farei io?”.

Questo è il risultato.

La triste notizia è che ce ne saranno altri. Perché quando ero a scuola non mi divertivo a fare i temi. Per la verità, non mi divertivo nemmeno ad andare a scuola. Mi divertivo parecchio di più quando ci si trovava con gli altri compagni di classe fuori dal cancello la mattina alle otto e si andava a pescare a fiume o in campagna a fare colazione col prosciutto. E si faceva spesso anzichenò. A scuola, non mi divertivo a fare i temi ma a fare questi, adesso, invece mi sono divertito. E lo so che ci sono divertimenti migliori. A giustificazione posso dire che m’è parso divertimento innocuo o comunque un danno da poco e, in ogni caso, non c’ho perso poi molto tempo. Ma il divertimento più grande è pensare che se avessi scritto questi temi a quei tempi, come anche oggi del resto, non avrei preso solo voti brutti ma avrei rischiato la vita: mi avrebbero dovuto sparare in faccia a canne mozze, e avrebbero fatto bene – come da contratto di lavoro.

Ora, io lo so che la collega non mi fornirà più i temi – se non altro perché le riempio la email di stronzate – ma nell’era di internet… http://www.interruzioni.com/temi.htm tanto per dirne uno! E che ci vuoi fare?!! Ce ne saranno milioni!

 


 


 

TEMA 1

Descrivi il paese o la città in cui sei nato e/o cresciuto. Cosa significa per te vivere in questo luogo? Quali credi che siano i suoi lati positivi e quelli negativi? Unisci nella descrizione gli elementi soggettivi e oggettivi.

 

Il mondo è vecchio, amico mio! E tu dirai che, certo, ce ne sono di più vecchi – e di gran lunga! A oggi, sono conosciuti quattromilacento pianeti extrasolari in tremilacinquantacinque sistemi planetari di cui seicentosassantancinque multipli. Non saranno tutti più vecchi della terra, ma i candidati mi sembrano, a oggi, parecchi.

Il mondo è vecchio. E io sono assai pulzello, se mi ci confronto: e tu addirittura infante. Forse persino, ancora, lallante ed io a malapena balbuziente – che parla come un grande.

Questo mi dicevano in famiglia quando avevo a malapena un anno: “parla come un grande”. C’ho messo meno a imparare a parlare che a camminare e, a occhio e croce per come mi sono andate le cose della vita, non era un buon segno. Ma che ti devo dire: il convento passava questo. Certo, molte cose della mia primissima infanzia me le hanno raccontate, ma molte ne ricordo direttamente – e devono essere importanti perché in generale ho una memoria pessima.

“Parla come un grande” me lo ricordo direttamente, ed era la mia nonna detta in paese “Manganella” perché il suo cognome da ragazza era Manganelli (era di Milano): “Manganella” anche perché andava in giro nel paese con il mattarello – che mia mamma ancora l’anno scorso chiamava “maccheronaio” perché ci si facevano i maccheroni -, andava in giro con il mattarello sotto la gonna. Riusciva a nasconderlo bene perché era grassa e bassa, si faceva prima a saltarla che a girarle intorno. Portava il mattarello sotto la gonna perché girava in paese basso e via via mattarellava le amanti del mio nonno, il suo marito: perché le donne lombarde son volitive ma gelose da morire… cioè… da far morir quell’altre!

Il paese era Colle Di Val D’Elsa.  Che, come Bergamo, si divide in “Colle Alta” e “Colle Bassa”. “Colle Alta” è la città vecchia, quella storica che sembra vecchia come il mondo vecchio con il quale è iniziata questa storia. “Colle Bassa” è quella del popolo, con la piazza dove si faceva il mercato e la piazza del popolo e il teatro del popolo e la biblioteca accanto alla chiesa dove sono stato battezzato e sbattezzato: Piazza Sant’Agostino.

Io sono nato lì, a mezza costa, fra la città bassa e la città alta, in mezzo all’ “aringo”. La via dove sono nato si chiamava “via dell’Aringo”: non so come si chiami oggi, nemmeno riesco a trovarla su Google map. Ma “l’aringo” è evocativo: “arengo”, luogo dove si tiene la battaglia. Anche quello è un nome vecchio. Antico. Il nome di una via che sfocia in una piazza, la via da cui comincia la battaglia. Lì sono nato, fra il bastione della città vecchia e il piano. Lì ho vissuto i primi tre anni della mia vita. Lì ho i miei primi ricordi. No!, di più!: lì ho i miei primi sentimenti.

Mia mamma ha conservato per tutta la vita una catenina d’oro: era una catenina mia con un piccolo stemma; il muso della madonna su un lato, liscia sull’alto. Ogni tanto me la mostrava e mi raccontava la storia che quella catenina me l’aveva regalata il paese quando sono nato. Io, non ne ho mai avuto l’effettivo possesso. Una volta, nel suo ultimo anno di vita quando ormai la sintomatologia Alzheimer se l’era già portata via all’ottanta per cento, a cena, mise quella catenina al collo di una bottiglia di vino rosso vuota dopo avermi ripetuto per la milionesima volta quella storia. La bottiglia, con la collanina, è finita nel riciclaggio del vetro. Nella spazzatura. Perché questa fine fanno la fama, l’onore, la gioia: a me, m’ha voluto bene un paese intero quando sono nato. Adesso sono cambiate molte cose, ma ancora qualcuno c’è che si ricorda quando sono nato, che avevo i capelli rossi e ha suonato la banda (mio babbo suonava il basso in fa).

E qualcuno ancora c’è che sa cos’era la “via dell’Aringo”. Qualcuno ancora c’è che è vecchio come questo mondo e gli altri quattromilacento mondi.

Essere nati a mezza costa, fra Colle Alta e Colle Bassa, vuol dire parecchie cose. Vuol dire che sono uno a metà fra l’alto del sublime e il basso del volgare. Vuol dire che “andare” è salire o scendere ma mai un orizzonte. Per questo il mio mito è la route sixtysix che è solo e soltanto un puro orizzonte. La farò, quando avrò settant’anni: affitterò una moto ed andrò da New York a Frisco: dopodiché ho fatto tutto e posso anche morire.

Ho fatto tutto: l’altalena sotto i bastioni della città vecchia. C’era un ulivo. Tre anni fa c’era ancora, piccolo, secco, striminzito: ma a me quando avevo due anni sembrava un baobab. Mio babbo mi aveva messo uno spago a cavallo di un ramo e io ci facevo l’altalena. “Salire” era quello: andare verso Colle Alta, incontrare quell’ulivo ai piedi del bastione e dondolarmici.

Tutti abbiamo la memoria della sensazione dell’altalena: c’è un momento in cui ti slanci verso l’alto e l’orizzonte è il cielo. È una forma di volo. C’è anche un momento che l’orizzonte è il suolo ma è sempre una forma di volo: è… “planare”. Salire verso Colle Alta era volare.

Ho sempre cercato di salire ma soffro di vertigini e più invecchio e più diventa grave. Quest’anno, in autostrada fra Palermo e Catania, sono svenuto due volte: se guidavo io, ero morto. Alla Torre del Mangia di Siena sono salito una sola volta nella vita: avevo cinque anni e mio padre mi ha dovuto far scendere in braccio. La prima volta che mi sono accorto di questa patologia, o, meglio, della sua gravità, ero già grande: avevo poco più di vent’anni. Siamo andati in sette con sei moto dalla Toscana alla Calabria, costa ionica: sono uscito all’uscita di Lauria, ero il primo della fila quindi alla fine della rampa ho incavallato la vespa per aspettare gli altri; mi hanno trovato svenuto dall’altra parte del guardarail. La prima volta che ho fatto Bologna-Firenze di giorno, sono svenuto sei volte: facevo il viadotto, mi posteggiavo nell’area di sosta ed era buio. C’ho messo otto ore. Invece, l’aereo non mi fa niente. Per me, è più facile andare da Pisa a Lisbona che da Firenze a Bologna. (Sarà per questo che mi piace tanto il Portogallo e i suoi poeti?)

Salire è volare. Ma scendere è cadere.

Il passeggino è sfuggito di mano alla mia mamma. Io andavo a una velocità che, allora, mi pareva impressionante ma non era la velocità a farmi paura: era che alla fine dell’Aringo c’era una curva con un muro e io non sapevo come… “guidare” il passeggino. Sapevo che non avrei saputo girare: ma avevo un piano. Mi sarei buttato! Sarei arrivato vicino al muro e mi sarei gettato dal mezzo buttandomi sulla sinistra. Ho saputo solo alcune decine d’anni dopo che, così facendo, in verità avrei… “guidato” il passeggino facendogli fare una svolta a sinistra non so se sufficiente per non schiantarmi sul muro, ma comunque il mezzo avrebbe girato. Purtroppo, a due anni non avevo ancora delle nozioni di fisica. Sentivo le grida delle donne dietro che dicevano: “piglialo, piglialo, agguantalo”… ma agguanta di che!! A me non m’agguanta nessuno! Se me la cavo, me la cavo da me. Per questo avevo fatto un piano in… quanti secondi? Quanti secondi è durata quella discesa, quella… “caduta” prima che mia madre riprendesse possesso del passeggino (e quindi anche di me)? Ma insomma, me la sarei cavata.

Perché il mondo è vecchio ma io sono, ormai, un vecchio universo.


 



TEMA 2

 

Descrivi una tua amica o un tuo amico. Ricorda di inserire nella descrizione gli aspetti fisici (corporatura, lineamenti del viso, occhi, ecc.), gli aspetti psicologici (come si comporta? com’è?) e quelli ideologici (mentalità, modo di vestire, gusti, ecc.).

 

 

Dio cristo, quanto m’ha amato quella donna! Abitava a Sansiro e andò a vedere il concerto di Vasco allo stadio. Io abitavo a Bergamo e me la vedo entrare in casa alle tre di notte fumata dall’alluce all’orecchio: aveva anche perso una scarpa. S’era fatta cinquanta chilometri d’autostrada con il tasto city inserito. Se lo faccio io, in condizioni di lucidità, neanche arrivo al quindicesimo chilometro. Neanche so se abbiamo fatto l’amore ma so che m’ha amato di un amore profondo e disperato – disperato come quel gesto di guidare nella notte in condizioni di semi incoscienza.

Mi alzai da letto e l’abbrancai in un abbraccio disperato come quel suo amore, e la baciai e la spogliai e la misi a letto. Quello che successe dopo, davvero non lo so ma potrebbe essere di tutto. Ed infatti è tutto. Non è rilevante se abbiamo fatto l’amore, russato o dormito: di certo, abbiamo sognato. Insieme.

È tutto qui.

Certo, io lo so com’era il suo volto: rotondo come la luna, come il suo culo; come il suo culo di luna. Rotondi anche i suoi occhi neri. Neri, perché non si leggeva niente dentro. Aveva un’anima segreta. Non ho conosciuto nessuna donna mai essere così segreta e dispiegare così il suo segreto fino a farti sentire cieco, impotente. Un segreto squadernato e che tuttavia continuava a rimanere segreto fino a farti capire che non era nell’oggetto il segreto ma in te incapace di leggere in quel grande quaderno aperto che è l’anima di una donna.

Il suo sguardo aveva due toni: il nero e il liquido. Quando godeva, quando mi amava o semplicemente quando era di gioia la sua pupilla si liquefaceva, diventava d’acqua ma non di pianto: di riflesso. Era come un riflesso sull’acqua quel suo occhio. Faceva luce come a primo sole quando il raggio batte sul lago brinato che lo rifrange.

L’ho vista ridere, piangere, balbettare: stare accoccolata sotto la finestra con la testa fra le ginocchia. Fumava. La sentivo parlare ma non l’ho mai capita perché le parole sono impotenti a significare quel suo universo segreto. E non mi celava niente, mi parlava di tutto, tutto diceva. E quel tutto per me era niente o appena un poco.

Si, certo, parlavamo di letteratura, di poesia. Mi leggeva i suoi versi. Era religiosa, ma non cristiana. Era marxista ma non comunista. Era un groviglio.

Quando Niki Vendola è diventato governatore della Puglia, le ho detto che era comunista, omosessuale e poeta e lei ha detto: “ha tutti i difetti” ma sorridendo pietosa di me per significare che nemmeno una di quelle cose era un difetto. Parlava ironicamente. No: scanzonatamente. E anche a me mi canzonava. Perché l’amore, quello vero, è solo questo alla fine: una canzonatura.

Dio, se m’ha amato!!!

 


 


 


TEMA 3

Scrivi un racconto/una novella in cui la narrazione sia condotta in prima persona dal punto di vista di un oggetto inanimato (es. un cellulare, uno specchio, ecc.). Che cosa racconterebbe se avesse il dono della parola?

 

 

 

No, non ti dirò il mio nome né quando sono nato. Non ti dirò niente perché troppe serate avrei da raccontare, troppe parole servirebbero e troppe storie da raccontarne in eterno come in un libro di cui ho sentito parlare, le cui molte storie ho sentito dire: si chiama “Le mille e una notte”. Qui hanno vissuto e qui anche qualcuno è morto qualche volta. Ho visto tutte queste vite, qualche morte: molte gioie, qualche dolore. Insetti e animaletti m’hanno camminato addosso, qualcuna in agguato: ragni, un geco che ha imperversato per anni ma non sono mai stato un nido. Dopo molto tempo che c’ero ho compreso che un “nido” era qualcosa di cui facevo parte ma tanto più grande di me da essermi incomprensibile.

C’era un caminetto, qui in fondo sulla destra, e l’ho visto ardere gioioso, sempre acceso, sempre dirompente e, a quel calduccio, anche io stavo bene. Ridevano tanto. E fumavano sigari, pipe: bevevano brandy. Parlavano sottovoce: raccontavano. Ho pensato spesso e a lungo di aver vissuto in un luogo intimo, vivo.

Poi, il caminetto ha cominciato ad essere sempre più spento e a un certo punto è morto. Anche a me cominciava a mancare un po’ di colore e del suo calore. Non parlava più nessuno sottovoce, tutti urlavano come fossero una folla anche se erano solo due: voci una sull’altra, non si capiva più niente, parole accavallate, gridate. Parole che non raccontavano più niente, non si capiva più niente. Anche loro perdevano lucentezza, splendore, brillantezza.

Certo, c’era sempre il sole. Tutti i giorni lume, tutti i giorni ingrigiva e poi dopo luceva. All’inizio ci facevo poco caso perché era sempre pieno di gente, di cose, di parole. Per molti anni dopo, però, è rimasto solo quel lucore che grigiva e la notte che luceva. E freddo.

Però non è vero che è stato sempre più freddo. A un certo punto si è stabilizzato, non è raffreddato più. Forse perché non c’era più nulla da raffreddare, forse solo perché le variazioni di temperatura non sono altro che sensazioni e quindi fallaci, irreali, temporanee. Insomma, io non so davvero perché ma non ha poi mai fatto più di tanto freddo.

Ma c’è una cosa che non ho mai capito bene, credo che lo chiamassero “tempo”. Sembra sia una cosa che passava ma senza movimento. Oh!, passare ne ho viste di cose, parole, persone, bestie. Per quanto capisco anche emozioni. Ma non ho mai capito bene questa cosa del tempo. So bene, però, che era qualcosa che in qualche modo mi riguardava: qualcuno diceva “questo non dura”, qualche altro invece pensava “questo è eterno” e “questo” ero io. Ho capito che il tempo è qualcosa come una “durata” e quanto ero buono, bello era un fatto di durata e quindi di tempo. Ma se dovessi dire che c’ho capito qualcosa direi il falso.

Mi hanno sparso addosso del colore, parecchie volte, e mi piaceva perché era come respirare nuova aria, nuova vita – almeno per un po’. Ma, personalmente, non è che ci tenessi granché: non mi è mai importato molto del colore. Mi faceva stare bene, è vero, ma c’erano cose che mi facevano star meglio: il tepore, le persone, le parole. Molto meglio.

Piano piano ho cominciato a perder pezzi. Non saprei indicare un giorno preciso, un momento. Perché chi può dire quando comincia a invecchiare? Quando ne vediamo i segni l’invecchiamento è iniziato. Ho il sospetto che anche quello, l’invecchiamento, fosse una questione di tempo ma che cosa avesse a che fare l’invecchiare con la durata ancora non mi è chiaro. Ho il sospetto che invecchiare significhi qualcosa come “durare poco” oppure “aver durato tanto”. Passato e futuro, tutta roba di tempo che non capisco quasi per niente.

Perdo pezzi ma ho sentito dire che si possono reintegrare. Per ora sto qui al freddo, al silenzio, da solo senza alcuni pezzi, altri frammenti grondanti.

Non ti dirò il mio nome, perché non lo so, né quando sono nato, perché non lo so – il tempo non lo capisco. Ma ho sentito due che dicevano di me l’altro giorno: “questo è un muro scialbato di una vecchia casa colonica; quanto vuoi che duri?”

Intanto, quello che posso dire è che sono durato più di te, stronzo!

 


 


 


TEMA 4

Inventa una storia che contenga un flashback e un finale a sorpresa. Puoi scegliere il genere che preferisci (es. fiaba, favola, racconto realistico, racconto giallo, ecc.).

 

 

 

Dopo parecchi giorni di galera mi portarono in tribunale legato come una porchetta sul girarorrosto.

Volevano una confessione. “Prove schiaccianti”, disse il procuratore. “Ferite da taglio, impronte sul coltello, stanza chiusa dall’interno: non ci serve neanche una confessione ma è la prassi.”

“Allora ti faccio perdere poco tempo: fammi riportare dove m’hanno preso.”

Il processo andò come doveva. Mi avevano dato un avvocato d’ufficio. Volli fare una dichiarazione:

“Vostro onore, le cose non stanno come sembrano. Avevo conosciuto Lucina qualche giorno prima ma non ci ero mai stato a letto. Una certa simpatia fra noi ve la confesso ma, fino alla sera dell’omicidio, non eravamo mai andati oltre bere, mangiare, ballare. Qualche bacino c’era scappato, è vero, ma niente di tanto coinvolgente da non poter tornare indietro. Di andare a casa sua l’ha proposto lei. A me sembrava una donna normale, neanche troppo carina. Non ne avevo neanche voglia ma mi sono fatto coinvolgere. Pazienza. Ha cominciato a baciarmi appena chiusa la porta e ci toccavamo, carezzavamo. Ero stordito. S’è avviata verso la camera da letto seminando vestiario lungo il percorso: scarpe, gonna, camicia… e il resto. Confesso che non ho reagito subito: non me l’aspettavo. Quando la corteccia prefrontale ha realizzato le sono schizzato dietro come una molla imitandola. Ho seminato i mei abiti in tutto l’appartamento: scarpe, pantaloni, maglietta… e il resto. Quando sono arrivato era già sul letto con braccia gambe aperte. Voi capirete, vostro onore, che non essendo l’uomo di legno ma avendone solo l’apparenza in alcune parti in certe circostanze, è successo quello che è successo. Ma a un certo punto lei ha smesso: ha detto che le piacevano i giochini sadomaso e io stavo per darle un arrivederci quando ha preso dal cassettino del comodino uno stiletto. Mi ha chiesto che glielo strusciassi sul corpo. Mi ha messo lo stiletto in mano ed ha cominciato a guidarmela in modo deciso. In questo modo si è fatta dei segni sul collo, sul seno e poi mi ha lasciato la mano ma io ho continuato. Però molto più leggermente di come aveva fatto lei. E allora, a un tratto, come aveva smesso è ripartita e abbiamo fatto l’amore. Nel trambusto, lo stiletto dev’essere finito per terra. Mi ha chiesto di raccoglierlo e io mi sono alzato per farlo mentre lei ancora frugava nel cassetto del comodino. Ho trovato lo stiletto e gliel’ho porto e mentre glielo porgevo lei aveva una pistola che mi puntava. ‘Amico mio, è una violenza sessuale: si tratta di legittima difesa’ e m’ha sparato. È così che sono andate le cose.”

“Così lei pensa d’essere morto?” ha domandato il giudice.

“Sissignore, almeno, se lei è quello che io penso che lei sia”

“E chi pensa che io sia?”

“Dio”

“Porca puttana! M’hanno sgamato anche stavolta!”

 

 

 


 


TEMA NARRATIVO

Scrivi un racconto di genere giallo (ad enigma, thriller, noir o horror) che abbia questo inizio: “Camminava nel prato senza guardarsi indietro. Io, a pochi passi di distanza, facevo attenzione a non farmi vedere…”. Dai un titolo al tuo elaborato.

 

 

IL DARDO

 

Camminava nel prato senza guardarsi indietro. Io, a pochi passi di distanza, facevo attenzione a non farmi vedere quando la ragazza stramazzò a terra, sull’erba. Non aveva quasi perso sangue. Non si era accorta nemmeno da dove era arrivato il colpo mortale. Restai appena un momento a guardarla bocconi mentre il sangue defluiva, liquido, acquoso dal piccolo forellino nella schiena.

Mi defilai prima che si accumulasse la folla di passanti che facevano jogging o andavano a lavorare attraverso il Giardini di Piazzale Bologna: la prima era andata.

Nei giorni successivi mi godei lo spettacolo dei giornali di Milano che parlavano della morta di Piazzale Bologna prima a lettere cubitali, poi sempre meno fino alle pagine interne. Quando i giornali, finalmente, tacquero, misi a congelare un’altra freccetta. Avevo fatto in officina un contenitore di metallo a forma di cono: ci mettevo dell’acqua che facevo congelare in ghiacciaia. Se ne ricavava un piccolo dardo da poter essere lanciato da una piccola cerbottana. Certo, aveva degli inconvenienti: bisognava lanciarlo velocemente, dopo averlo tolto dal frigorifero, perché alla temperatura esterna si sarebbe sciolto rapidamente. Non mi era possibile, dunque, allontanarmi troppo da casa, prendere una metropolitana o andare a Piazzale Lotto o, meglio ancora, in centro, zona Duomo. Per contro, una volta lanciato e colpito il cuore del bersaglio, il dardo si scioglieva facendo così scomparire per via naturale l’arma del delitto.

Ci avevano ricamato molto sopra perché era un evidente delitto, quello di Piazzale Bologna, ma non si sapeva come fosse stato effettuato: c’era un foro d’entrata da dietro, sulla schiena all’altezza del cuore, ma nessun proiettile e nessun foro d’uscita. Era solo un semplice, piccolo, mortale, micidiale dardo di ghiaccio: un’arma perfetta.

La seconda la presi in via Puglie mentre andava in bicicletta. Ero sotto un albero lungo il marciapiede: mi passò davanti sfrecciando e io non persi tempo: imboccai la piccola cerbottana e soffiai forte. Pftuh!! La ragazza crollò sul lato destro, lei e la bicicletta senza neanche un gemito che avrei sentito perché lungo la strada non passava nemmeno una macchina. Rimase fulminata con le mani sul manubrio. Spettacolare. Rientrai in casa e mi godei lo spettacolo dei passanti che si fermavano, il capannello di gente che si formava, l’ambulanza che arrivava, la polizia, il magistrato, la scientifica con le tutine bianche. Durò parecchie ore burocratiche e, ancora, diversi giorni di giornali.

Certo, se avessero capito l’arma del delitto mi avrebbero beccato facile: abitante della zona, precisione chirurgica. Ma non la capirono mai. Andai avanti per un po’ di tempo: appena i giornali tacevano, pftuh!, un altro ghiacciolino nel cuoricino. Smisi quando i morti diventarono talmente tanti da non meritare più nemmeno i titoli dei giornali. Gli inquirenti non legarono mai insieme il modus operandi quindi non fui neanche mai menzionato come serial killer. Che delusione. E che deficienti!

Qualche dardo lo lancio ancora, di tanto in tanto, ma così, tanto per fare qualcosa quando mi annoio, giusto per non fare come gli altri pensionati che vanno a guardare i lavori dei cantieri aperti. Nessuno lo dice o lo dirà mai ma state attenti alle spalle quando passate intorno a Piazzale Bologna


 

TEMA ARGOMENTATIVO

Esiste il Destino?

 

Per gli antichi Greci il Fato, personificato dalle Moire, era una forza superiore addirittura alle divinità, in grado di decidere la sorte degli uomini, il momento della loro nascita, gli eventi fondamentali della loro esistenza e infine la loro morte.

Credi che esista una simile entità capace di determinare gli aspetti fondamentali delle nostre vite? Oppure ritieni, come sostenevano gli antichi Romani, che ciascuno sia artefice della propria sorte?

SVOLGIMENTO

Fato, destino, sorte sono tutti sinonimi di un principio di causalità. L’uomo s’è sempre chiesto, nel corso dei millenni, perché accade quel che accade: ha cercato ed inventato miriadi di spiegazioni per gli eventi, propri ed altrui, miliardi di giustificazioni per i propri comportamenti, per i propri accadimenti. Si è cercato di spiegare, si è cercato di capire, si è cercato, perfino, di scegliere… e non se n’è mai capito un cazzo!

Sono importanti le cause perché con esse si spiegano gli effetti. Se è vero che tutto finisce là dove comincia, è dalle cause che possiamo vedere la fine. La filosofia è nata per esorcizzare il dolore e la morte (Emanuele Severino) ed è per questo che la ricerca filosofica è sempre alla ricerca delle cause e cioè alla scoperta della morte.

Di questa ricerca delle cause fanno parte anche le varie forme di fede, fra le quali la fede nel destino e nella pre-destinazione, le religioni, le mistiche.

La ricerca delle cause non è altro che la ricerca del senso e del significato di cose ed eventi. Facciam così tanta fatica a dar senso alle cose e mi par ovvio il perché: il senso delle cose non c’è. In questo, non fa differenza che esista il destino o l’arbitrio, che qualcuno sia artefice di se stesso o un destino l’abbia maledetto ad essere di sé artificio.

Il fatto, semplice, è che non ci sono né cose né eventi e quindi né destino né scelte o decisioni: cose ed eventi sono artifici. Non esistono davvero. L’uomo è un manufatto di carbonio, idrogeno, ossigeno, potassio e via dicendo. Perfino i pensieri sono artefatti di dopamina, adrenalina e che diavolo d’altro. Esattamente come un peto di vacca: un artefatto di carbonio e idrogeno (CH4). Ed esattamente come una scoreggia di vacca l’uomo è esplosivo.

Destino e scelta non sono altro che le faville di incendio che innescano l’esplosione del pensiero.

L’esplosione è cominciata quando l’uomo si è creduto migliore di una rana o di un grillo perché poteva identificare le cause della grillità e della ranità e perimetrare i recinti della rana e poi dell’animale e poi perfino dell’universo cògnito. Questa perimetrazione è avvenuta attraverso la scoperta delle cause di fatti ed eventi che di volta in volta, a seconda del gusto dei secoli, sono diventati destino o decisione, decisione del destino ma, più propriamente (con Sartre), destino di decisioni.

Gli uomini scelgono, è vero. Non si può evitare questa responsabilità che però, del resto, è irrilevante. Non si può evitare nemmeno la sensazione di non avere scelto e di trovarsi nel gorgo di uno o più evento di cui siamo vittime ma non artefici. Perché è talmente tanto quello che ci prescinde che sfugge da qualsiasi possibilità di decisione. Non decidiamo che il sole tramonti stasera più di quanto decidiamo che sorga di nuovo domattina ma non per questo il motivo per cui sorge o tramonta il sole è un destino: è un semplice, banale fenomeno naturale.

Non c’è destino, non c’è scelta. Non c’è niente. È tutto irrilevante rispetto al fenomeno di idrogeno e ossigeno che si mischiano a formare il peto della vacca o il sole. Non c’è cosa, non c’è evento e quindi non ci sono nemmeno le loro cause.

Artificio è la storia, la filosofia, la letteratura perché il pensiero non è altro che un fenomeno elettrochimico. Artificio è perfino il corpo che non è altro che un agglomerato di carbonio e altri elementi. E solo questa è la causa che, è vero, è anche la fine: quando un corpo muore, fatalmente, si decompone nei suoi elementi costituenti che si disperdono nell’ambiente a danno cibo a vermi, lumache, concime per erbe ed infine si ricompongono per formare altri soli di cui non avremmo mai cognizione alcuna.

Non sappiamo niente, non abbiamo saputo mai niente ma quello di cui sono certo è che non dobbiamo mai fumare intorno alle vacche che scoreggiano perché il metano (CH4) è altamente infiammabile.